Una serata in compagnia dei KP (di Matteo Lepore)

Il prog rock nasce a cavallo degli anni ’60 – ’70 in un epoca profondamente segnata da forti tensioni sociali e da cambiamenti di moda e costume in cui la musica rock viveva un relativo periodo stagnante di creatività dopo gli sfolgoranti anni ‘60 che hanno portato il rock alle radici del blues, le nuove generazioni si trovarono nella scomoda posizione di evolvere il loro modo di fare rock.

Nuovi artisti fecero del termine “contaminazione” una vera e propria parola d’ordine; dal folk al jazz passando per la musica classica, le composizioni cominciavano ad acquistare maggiore ariosità e si amalgamavano con il forte estetismo teatrale dal sapore lisergico. Tra i migliori interpreti di questa nuova era del rock troviamo nomi del calibro di King Crimson, Genesis, Jetro Thul, Yes, Emerson Lake and Palmer che a loro volta andarono ad influenzare una nuova generazione di musicisti che elevarono il prog a livelli sublimi attraverso tutti gli anni ‘70, sino a influenzare il pop dei primi anni ‘80.

 

Raccontatemi la vostra storia

Danilo: Due giorni dopo aver conosciuto Samuele, ci ritrovammo a casa di Jacopo, un amico comune, per suonare insieme. Un basso e una piccola batteria elettronica, una Yamaha DD-12, tutto qui. Quella fu la prima volta che io e lui improvvisammo qualcosa, trovando subito un ottimo feeling. Neanche 20 minuti dopo ci accorgemmo che fuori dalla porta a vetri della stanza in cui suonavamo si erano accalcati gli altri nostri amici, tutti lì ad ascoltare le nostre “strane” (per loro) improvvisazioni. Credo che in quel momento sia io che Samu ci rendemmo conto che qualcosa di nuovo stava nascendo, musicalmente. Di sicuro mi convinsi che, fino a quel momento, non avevo mai suonato con un bassista del genere e che se un domani avessi fondato un nuovo gruppo, lui avrebbe dovuto farne parte. I Kerygmatic Project sarebbero arrivati molto più tardi, ma… sì, secondo me la scintilla si accese quel giorno.

Marco: La nostra è una storia davvero semplice: tre persone accomunate da una passione si incontrano e realizzano ciò che più piace loro. Senza compromessi, senza limiti, la musica fin dall’inizio è venuta fuori in modo naturale. È bastato trovarci un giorno di molto tempo fa per capire che la volontà di costruire qualcosa di serio era comune e che da lì in poi avremmo intrapreso uno stimolante percorso che a distanza di anni ha portato alla pubblicazione di ben (al momento) due album, cosa probabilmente inimmaginabile ai tempi… o forse no…

Samuele: Raccontare la nostra storia significherebbe riempire le pagine di un libro, e magari un giorno lo si scriverà pure. Focalizzerei l’attenzione su un fatto iniziale. Ricordo uno stupendo pomeriggio d’estate di molti anni fa quando Danilo e Marco si trovavano a casa mia per la prima session di prova della nostra storia, il gruppo, infatti, non esisteva ancora. Ci confrontammo su tutto e decidemmo di tentare di realizzare qualcosa che ci rappresentasse. Io cominciai a dire: “suoniamo colore, suoniamo impressione, suoniamo tempesta o quiete, suoniamo dolcezza, suoniamo sentimento o ragione”. Io intendevo superare le barriere dell’ovvietà e quando, in precedenti occasioni, tentai di proporre le medesime cose ad altri musicisti, fui preso per matto o visionario, e qualcuno mi rispose che non aveva minimamente capito a cosa volessi mirare. Quando Danilo e Marco finirono di ascoltare la mia strana richiesta, sorrisero e cominciarono ad esprimersi suonando, dimostrando di avermi perfettamente inteso. In quel momento compresi che ci eravamo trovati e che i Kerygmatic Project avrebbero rappresentato il luogo concreto della nostra spontanea espressività artistica.

 

Quali sono state le esperienze che vi hanno unito, le vostre influenze?

D: Beh, basta guardare quali siano i nostri musicisti preferiti (e per riflesso i gruppi in cui suonano) per capire cosa ci tiene legati. Oltre all’episodio raccontato prima, che mi lega a Samuele, sono felice di avere un tastierista come Marco. Nonostante la maggioranza dei gruppi che hanno formato la mia cultura musicale abbiano un chitarrista “rilevante”, non sono un amante di questo strumento. Nel senso che non lo vedo come elemento imprescindibile di un brano. Marco riesce a fare con una tastiera quello che molti gruppi relegano alla chitarra. Va da sé che, avendo a disposizione un musicista del genere, qualsiasi influenza musicale uno possa avere, ti può spingere a ben più ampi orizzonti.

M: Le influenze comuni si possono riassumere in una sola parola: MUSICA. A prescindere da tutto è sempre stata la passione per questa forma d’arte che ci ha spinti ad andare sempre più avanti, alla ricerca di sonorità nuove e moderne. Dal progressive rock, alla musica classica e perché no alla musica elettronica, ogni nota suonata, ogni fraseggio ascoltato ha contribuito a dare quel tocco di originalità in più alla nostra “unione sonora”. La formazione un po’ particolare per i tempi che corrono e la necessità di avere un suono ricco ci hanno inoltre spinti ad utilizzare sempre di più la tecnologia in maniera coinvolgente cercando di prendere le distanze dal binomio “tecnologia = freddezza”. E proprio questa passione per l’elettronica è un altro aspetto che in un modo o nell’altro ha decretato la nostra unione. Le mie personali influenze? Beh da Emerson, a Chick Corea molti sono stati gli ispiratori; diciamo che se dovessi fare un elenco, probabilmente questa intervista risulterebbe un po’ troppo stretta.

S: A partire dal 1995 circa ho cominciato a studiare il progressive rock e mi sono interessato, in modo particolare, al ruolo del bassista cantante. Le mie passate esperienze musicali, infatti, mi avevano condotto a suonare come bassista, o al massimo come bassista corista. I gruppi con cui ebbi modo di esibirmi all’epoca, dal rock al jazz, avevano generalmente un cantante che svolgeva quella funzione e basta, o, in taluni casi, un cantante che era anche chitarrista. Fu durante un’esperienza solista come bassista cantante nel 1996 che un jazzista presente al concerto mi convinse di percorrere la strada del bassista cantante. Nel 1996 gli Emerson Lake & Palmer influenzarono la mia intima esigenza di formare un trio che avesse quella medesima statura espressiva, soprattutto nello stile della formazione; per cui quando conobbi Danilo, che sapeva suonare la batteria in quel modo così speciale, e Marco, che riusciva a creare quelle sonorità così grandiose e particolari, fui immediatamente convinto che il sogno si sarebbe di lì a poco realizzato. Oggi, a distanza di così tanto tempo dal nostro primo incontro, posso con certezza affermare che Marco e Danilo restano per me i due artisti più importanti con cui abbia mai avuto l’onore di collaborare.

 

In due parole raccontatemi il significato di “KERYGMATIC PROJECT”

D: Lascio a Samuele l’etimologia della parola “Kerygmatic”. Il “Project” non è stato messo lì per caso. Il nome del gruppo è una sorta di contenitore in cui convergono pensieri, suoni, immagini… insomma, tutto ciò che può essere considerato sotto il termine “arte”. Il nostro è un “progetto” che ha come obiettivo ultimo l’espressione degli elementi che lo compongono.

M: MUSICA INNOVATIVA… diciamo che non è proprio la traduzione letterale, ma è il significato che secondo me meglio descrive il nostro nome.

S: Il termine Kerygmatic deriva dal termine greco Kerygma, che essenzialmente significa annuncio, ed ha una connotazione molto particolare nel contesto del pensiero filosofico e teologico cristiano. Il nostro “progetto kerygmatico” è testimoniato dall’essere artisti impegnati nella comunicazione della nostra arte, senza il timore di esplicitare le fonti spirituali e culturali che costituiscono sempre il nostro punto di riferimento.

 

Le grandi band prog sono legate ai concept creando delle vere e proprie “storie” lunghe uno o più album. Siete anche voi legati a questo dogma?

D: Il progressive rock è nato e si è sviluppato in un periodo storico ben preciso. E molto diverso da quello in cui viviamo oggi. Probabilmente un concept album oggi non sarebbe compreso interamente. Va anche detto che è cambiato il modo di fare musica e il mercato stesso che la alimenta. Forse oggi ha molto più senso esprimere un concetto all’interno di un singolo brano, piuttosto che dilatarlo in un intero album. Questo non significa che non mi interessi creare un concept album, solo che non lo considero come un dogma a cui attenermi imprescindibilmente.

M: I tempi a mio parere sono cambiati. Oggi si vive nell’era dell’Ipod, della musica “mordi e fuggi” dove probabilmente una storia lunga più album non avrebbe poi molto senso. Il termine “concept” può magari aderire meglio ad altre forme artistiche (in letterature gli esempi sono numerosi), ma vedo difficile che il pubblico si appassioni a qualcosa che non può vivere interamente nel più breve tempo possibile a meno che non appartenga ad una nicchia di appassionati. Creare un album “stand alone” non significa necessariamente cercare di esaurire un concetto in pochi minuti. Un pensiero può anche essere suddiviso in molti episodi autoconclusivi, senza tenere nascosto quel filo comune che li lega.

S: La creazione di un concept album ha sempre significato per l’artista che lo confeziona, non sempre però per chi lo ascolta. Quando si dice che l’arte è espressione, si afferma una cosa sensata, ma talvolta ciò che si esprime veramente non è inteso dal grande pubblico: bisogna sempre aver presente chi sia il vero destinatario di un’opera; è una questione di onestà intellettuale, per cui, a volte, è più importante il non detto, cioè l’inespresso, che il detto. Alcuni concept del passato, penso a Tales from topographic oceans degli Yes, resteranno sempre affascinanti ed enigmatici, anche se oggi, al di là degli appassionati veri, credo sia molto difficile trovare qualcuno che sia disposto ad impegnarsi nell’ascolto di quei materiali e che, allo stesso tempo, sia dotato di una preparazione adeguata per poterlo fare. Il concept, comunque, non deve essere un dogma, ma una possibilità espressiva, esplicita o implicita, che risponde ad esigenze intime dell’artista; anche perché nel contesto di un album potrebbero esserci più idee guida. L’esempio più immediato? Il nostro Greek Stars Gallery. L’album, infatti, risponde a questa esigenza di ben tre idee guida che si intersecano continuamente, per cui potrebbe essere definito addirittura un multi-concept.

 

Quale filo logico seguite nel songwriting?

D: In due parole? Tutto ciò che ci esprime al meglio. E la cosa bella è che c’è massima libertà decisionale da parte di ognuno. Forse in questo caso vale il termine “il fine giustifica i mezzi”, che tradotto significa: ho in mente cosa dovrebbero fare il basso o le tastiere in un punto, ma ascolto le idee di Samuele e Marco. Se alla fine ci si rende conto che sono migliori della mia idea originaria, si usano.

M: Si lavora sempre con tre teste pensanti! Da questo pensiero comune nasce sicuramente qualcosa che rispecchia le nostre idee, sia per quanto riguarda le sonorità che l’arrangiamento. Ognuno insomma dà il suo contributo senza soffocare le idee degli altri. Posso inoltre dire che, visto e considerato il numero esiguo di componenti, anche le discordanze vengono riappacificate senza nessun problema.

S: Si cerca sempre di lavorare nel modo migliore. Difficilmente le cose nascono a casaccio, può anche succedere, ma non è la regola. I Kerygmatic Project scrivono col cuore certamente, ma anche con la testa, per cui ciò che si realizza deve avere una ragione. Non si deve confondere il metodo e la disciplina con l’ispirazione, quasi si trattasse nell’insieme di una cosa glaciale. Non è così. È l’armonia dell’insieme che permette la realizzazione di qualcosa di importante. Il parere di tutti e tre è determinate: “uno per tutti e tutti per uno”, verrebbe da dire, citando il motto dei moschettieri di Alexandre Dumas (padre).

 

Parlatemi del vostro disco…

D: Greek Stars Gallery nasce dall’idea di unire il classico al moderno. Certo non è una cosa che nessuno ha mai fatto prima, ma sicuramente è qualcosa che l’attuale mercato musicale non conosce, non in questo modo almeno. A differenza del nostro primo album (Nothing but Truth), che era molto più variegato anche in ambito compositivo, in Greek c’è una sorta di unità di fondo. Inizialmente può essere identificata con l’impiego dell’orchestra (presente praticamente in ogni brano), ma ascoltandolo attentamente si può percepire che questa sorta di legame va più in profondità. Credo che mostri perfettamente l’unione musicale che c’è tra noi.

M: È bello, orecchiabile, da Ipod (ma forse questo non è un complimento eheheh )… insomma… ascoltatelo… punto

S: Greek è un album coraggioso in cui i diversi elementi che confluiscono attestano la sintonia creativa che ci accomuna.

 

Come vi relazionate con i live? Non temete il paragone con Ian Anderson, Peter Gabriel con la loro teatralità e fisicità?

D: Quelli erano altri tempi. Se Samuele si conciasse come Peter Gabriel, oggi non verrebbe capito. Qualcuno potrebbe pensare che questo genere di musica preveda la teatralità, sempre. Personalmente non la ritengo un elemento fondamentale. Certo, lo spettacolo ci deve essere, perché di spettacolo si parla. Uno va ad un concerto “anche” per vedere, non solo per ascoltare. Ma chiariamo subito una cosa: noi non siamo gli Yes o i Genesis! Noi ci ispiriamo anche a loro ma siamo altro. Con un po’ di ambizione dico che vogliamo essere quello che il progressive rock può essere oggi, in questo periodo musicale. Di più, quando quei gruppi vivranno solo attraverso le loro registrazioni, la nostra musica dovrà essere considerata come la figlia legittima di un genere che si è rinnovato mantenendo la propria tradizione.

M: Non voglio paragonare il nostro gruppo ad altri che in un modo o nell’altro hanno già fatto storia. Noi siamo semplicemente noi stessi. Nei live cerchiamo di dare tutto per noi ma anche e sopratutto per il pubblico. La soddisfazione di sentire la gente applaudire non ha prezzo. E se il ritorno del pubblico è caloroso, vuol dire che il nostro lavoro l’abbiamo fatto davvero bene a prescindere da maschere, teatralità, travestimenti.

S: Bisogna sapersi rinnovare nella tradizione! Non mi sono mai considerato un leader, né tantomeno un leader carismatico come Peter Gabriel o Ian Anderson, e non nascondo che il palco mi spaventa sempre. Credo che il giorno in cui non mi facesse più quell’effetto smetterei di salirci, perché non mi sentirei più onesto di fronte al pubblico. Io, per quanto posso, cerco di essere semplicemente uno strumento evocativo in grado di creare suggestioni che delicatamente hanno la pretesa di giungere ad un pubblico che abbia ancora voglia di pensare ed ascoltare. Mi considero un romantico con lo sguardo rivolto al cielo e i piedi ben piantati per terra.

 

Quando vi vedremo suonare dal vivo?

Kerygmatic Project: A giugno comincerà il tour di presentazione del nuovo album, Greek Stars Gallery. Il 9 saremo a Vigevano presso il campo sportivo di Corso Genova 38, mentre il 21 suoneremo a Stresa in piazza Cadorna, centro storico della città.

 

Ringrazio i ragazzi per la loro disponibilità e per la loro simpatia e consiglio, a chi volesse conoscere di più loro e la musica e il “Kerygmaticpensiero”, di connettersi al seguente link: www.kerygmaticproject.com

 

Intervista di Matteo Lepore

About kerygmaticproject

I Kerygmatic Project nascono nel 1998 da un’idea di Samuele Tadini, Danilo Nobili e Marco Campagnolo, con la finalità di comporre brani originali che recuperassero nello stile e nella realizzazione la grande tradizione del progressive rock britannico degli anni settanta e ottanta, tradizione rinnovata secondo una nuova chiave di lettura in grado di abbracciare anche differenti stili, tanto da costituire un sound originale e ben riconoscibile.
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